Valle del Fiume Ofanto

L’Ofanto è una biblioteca a cielo aperto, un patrimonio culturale, storico ambientale, educativo che va tutelato e preservato per la nostra e soprattutto per le future generazioni.

Il fiume Ofanto, l’intera Italia meridionale ha rappresentato nei secoli, veicolo di scambi e sincretismi culturali che attraverso lo sviluppo storico, culturale e economico della sua valle ha evidenziato e documentato l’antico ruolo di cerniera geopolitica e culturale tra l’Appennino e la costa Adriatica.
L’acqua essendo l’elemento fondamentale di un territorio, ne governa i ritmi e, a secondo della profondità, delle correnti, favorisce i traffici i commerci gli scambi culturali tra la costa e l’entroterra.

Il fiume è, nel contempo, la realtà più complessa sotto il profilo geofisico, poiché nel tempo ha saputo armonizzare e equilibrare le esigenze dell’ambiente, del territorio, con le sempre più pressanti esigenze antropiche. Il fiume Ofanto, il suo bacino idrografico, la sua valle racchiudono un intero patrimonio dal punto di vista vegetazionale e faunistico – ambientale a servizio dell’avifauna di passo e di quella stanziale.
L’Ofanto ha come prerogativa la capacità di mantenere un’alta biodiversità, di differenti specie animali e vegetali. Gli animali rappresentano l’aspetto più appariscente e più spettacolare dell’Ofanto. Tra tutti meritano particolare menzione l’airone rosso, l’airone cenerino, la bianchissima garzetta e la sgarza ciuffetto che trovano nell’area deltizia della foce, una sorta di autogrill lungo le rotte migratorie nella quale sostare e rifocillarsi.

Tra i mammiferi, l’esistenza di molte specie è strettamente dipendente dalle zone umide, tra questi spicca la lontra predatore notturno e indicatore di una rilevante biodiversità, ma anche altri piccoli predatori come la puzzola e la volpe che, insieme ad altre 62 specie d’interesse naturalistico, trovano lungo le aree golenali del fiume un ambiente favorevole alla tutela ed alla riproduzione .
Il valore economico, naturalistico e scientifico delle zone umide è ormai riconosciuto e salvaguardato a livello internazionale. Questi sono ambienti essenziali per la conservazione delle specie animali e vegetali che in questi “habitat” raggiungono valori massimi di diversità e di produttività fra tutti gli ecosistemi presenti sul pianeta, ed inoltre svolgono funzioni importanti per la regimentazione idraulica del fiume, attraverso la creazione di invasi artificiali. Nel bacino del fiume Ofanto negli ultima cinquanta anni sono stati realizzati otto invasi artificiali attraverso i quali si esercita il controllo di piene, assicurando disponibilità idriche per la produzione di risorse alimentari, favorendo anche la regolazione del microclima.

Come tutti i bacini idrici, l’Ofanto favorisce la presenza di un eccezionale assortimento di specie viventi che per varietà e ricchezza lo rendono, dal punto di vista naturalistico, una delle aree di rilievo della regione ed anche in ambito nazionale, nonostante gli interventi di bonifica e le deturpazioni a cui è andato incontro, soprattutto negli ultimi decenni. Esso ha rappresentato e costituisce, ancora oggi, un’ importante via d’acqua e di collegamento tra le aree collinari dell’Irpinia (Av) e le aree costiere del basso adriatico.
Il fiume è menzionato da numerosi poeti latini quali Livio, Orazio e Virgilio con il termine Aufidus. Orazio nelle sue Odi lo decantava in questo modo :“ Così irrompe l’Ofanto tauriforme, che attraversa i regni dell’Apulo Dauno, quando inferocisce e trama un’orrenda alluvione sui campi coltivati, come Claudio abbatté con impeto tremendo le schiere dei barbari coperte di ferro.” A testimoniare l’irruento carattere del fiume.

Il geografo Cosimo De Giorgi nel 1880 scriveva: “La valle Ofantina è una delle terre promesse nell’Italia Meridionale. Oh, se fosse conosciuta da tutti gli Italiani!”
Una ventina di anni prima Parigi aveva conosciuto i paesaggi dell’Ofanto dai quadri dell’artista barlettano Giuseppe De Nittis, impressionista di rilievo internazionale,mentre il mondo scientifico veniva informato delle ricerche sulla vegetazione ofantina dall’illustre botanico Achille Bruni.

L’Ofanto, citato per i “flutti ruggenti” nella nota “Encyclopedie” di Diderot e D’Alambert, è oggi un corso d’acqua notevolmente ferito e sconosciuto. Pochi sanno che nella sitibonda Puglia esiste un fiume, eccetto gli addetti alla salvaguardia e tutela e valorizzazione ambientale. Pochi, anzi pochissimi conoscono il suo meraviglioso, incredibile corso, lungo le cui spire si dipana la storia delle genti, la magia della natura, i suggestivi voli degli aironi e come se l’intera enciclopedia della vita fosse stata rinchiusa in uno scrigno qual è la sua valle e la chiave di questo meraviglioso scrigno sia stata smarrita lasciandolo chiuso, abbandonato all’oblio.

Nella chiesa di S. Salvatore a Brescia, su una lapide, si legge: “…con le nozze delle figlie congiunse a sé nobili cuori, unendosi le remote genti che l’Ofanto vorticoso lambisce, legandosi col vincolo della pace quelle che cingono il Reno e il Danubio”. Il brano è tratto dall’epigrafe mortuaria scritta da Paolo Diacono (VIII secolo) e dedicata alla “bellissima” regina Ansa, moglie del re longobardo Desiderio e madre di Desiderata, (l’Ermengarda manzoniana), moglie di Carlo Magno. Da questa testimonianza si evince la considerazione di cui godeva nel medioevo l’Ofanto, tanto da essere equiparato, nella citazione, ai grandi fiumi europei.
E oggi? Dobbiamo amaramente constatare che l’oblio regna su tale preziosa risorsa idrica. Il più grande corso d’acqua pugliese, il maggior fiume, a sud del Reno emiliano, che sfocia in prossimità del golfo di Manfredonia, nell’Adriatico meridionale, con i suoi 170 chilometri di lunghezza (una volta oltre 200!), con un bacino idrografico esteso per circa 2.780 kmq, rappresenta uno dei maggiori bacini imbriferi nazionali, è innaturalmente dimenticato da tutti, non essendo oggetto di insegnamento neanche a scuola, nelle stesse popolazioni che vivono all’interno della sua valle .

L’intero comprensorio del fiume Ofanto è composto da ben 51 comuni, di cui 35 hanno il centro abitato ricadente all’interno della valle e 16 sono posti al di fuori, ma appartengono comunque alla valle idrografica, poiché parte dei loro territori comunali ricade all’interno della stessa. La popolazione residente nella valle al censimento del 2001 contava 414.678 unità, con un forte saldo negativo a cui si aggiunge l’innalzamento dell’età anagrafica e un conseguente generale e diffuso invecchiamento della popolazione.
Nel 1951 si aveva una densità di 176 ab/kmq, mentre al censimento del 2001 la densità demografica era scesa a 148 ab/kmq, contro una media nazionale di 192 ab/kmq. La tendenza di questi ultimi anni è per una ulteriore diminuzione. I dati demografici fotografano la realtà economica legata al fenomeno migratorio che ancora oggi è particolarmente rilevante.
Il fiume Ofanto è un corso d’acqua che attraversa geograficamente tre regioni, (Puglia, Basilicata e Campania), quattro province, (Foggia, Avellino, Potenza e Barletta-Andria-Trani). A questo fiume è legata la gran parte della loro storia.

È sulle sue sponde che avvennero le due battaglie di Canne, quella epica tra Romani e Cartaginesi e l’altra tra Normanni e Bizantini. Tanti i siti archeologici nel bacino dell’Ofanto, che confermano l’importanza della valle nel contesto storico e geografico dell’Italia meridionale. La Puglia, per la sua particolare collocazione si è sempre posta come “ponte” tra terre e culture diverse. Notevole la presenza templare nella valle dell’Ofanto, testimone e complice della Storia.
In Puglia, il fiume si divide in una parte alta, non particolarmente bella, una parte mediana meglio conservata, e poi l’ultimo tratto che parte dall’insediamento industriale Fiat di Melfi e finisce con una foce altamente inquinata, nei pressi di Canosa, dove le acque registrano una concentrazione di batteri di origine fecale altissima, per poi terminare il suo corso in prossimità degli abitati di Barletta e Margherita di Savoia.

Qui l’originaria cuspide deltizia è stata in pochi anni erosa da un’intensa e marcata azione di erosione costiera che con un generale arretramento della linea di costa di 3-4 metri annui. La stessa zona umida, oggi sito SIC, è fortemente compromessa dall’azione antropica che vede in queste aree particolari zone di pregio per lo sviluppo urbanistico finalizzato alle seconde case.

La tradizione letteraria classica descrive la Puglia come una regione “siticulosa”, ma la realtà, era ben diversa. Nelle carte antiche appaiono numerosi torrenti, se ne conserva il ricordo nelle periodiche inondazioni di centri abitati come Bari, Bitonto e Andria… che si sono ripetute fino al secolo scorso. Poi la mano dell’uomo ha modificato tanto il territorio, facendo inabissare l’acqua e quella superstite inquinandola per poi recuperarla nelle acque reflue e berla.
Acqua, dunque, quale risorsa sempre più preziosa, in termini di disponibilità, di distribuzione qualitativa e quantitativa, una risorsa che per molti popoli costituisce un diritto negato, noi in Puglia l’abbiamo fatta scomparire e quella che rimane la stiamo avvelenando.

Oggi l’azione di tutela dell’ASSTRAI, Associazione di protezione ambientale per la salvaguardia e lo sviluppo della Acque interne, ha iniziato a promuovere e divulgare la realtà “Fiume Ofanto”, facendo seguito alla creazione del Parco regionale, istituito con legge regionale della regione Puglia n. 37/2007 e successivamente modificata con legge n. 7/2009, ed esteso per 15.306 ettari, e infine a valorizzarlo attraverso la costituzione del Consorzio Pro Ofanto.

Il Consorzio per lo sviluppo sostenibile della Valle dell’Ofanto, si prefigge di supportare il decollo del Parco dell’Ofanto all’intero percorso del fiume con il coinvolgimento di tutte le Amministrazioni interessate, imprese e professionisti per ambiziosi e rilevanti obiettivi , atti a tutelare il territorio e l’ambiente; valorizzare i beni storici, artistici, naturali e le tradizioni locali; promuovere ricerca scientifica, pianificazione territoriale sostenibile, iniziative ed eventi socio-culturali e turistici ed estendere a l’intero bacino imbrifero l’azione di tutela e valorizzazione con lo scopo di unificare le sinergie e le potenzialità di una valle dalle potenzialità, oggi, inespresse.

Abbazie, Santuari ed Eremi della Valle del Fiume Ofanto

Provincia di Avellino

Abbazia del Goleto

Superato Fontigliano (Nusco “AV”) ci si affaccia nella Valle dell’Ofanto e nei pressi di Sant’Angelo dei Lombardi, lungo la S.S. 7, l’an­tica Appia, in un suggestivo scenario delimitato dai monti Picentini, si trova l’antica Abbazia del Goleto. Fondata da San Guglielmo da Vercelli (1085-1142) intorno al 1133, il santo monaco vi concluse la sua esistenza il 24 giugno del 1142. La struttura, in origine un monastero dop­pio a prevalenza femminile, conobbe il suo mas­simo splendore in epoca normanno-sveva e agli inizi della dominazione angioina.

Nel 1152 fu costruita la torre Febronia – il nome lo si deve alla Badessa che la fece costruire – realizzata con pietre di risulta di un mausoleo del periodo romano dedicato a M. Paccio Marcello. Nel 1225 l’arrivo al monastero della reliquia del braccio di san Luca fu occasione per la costru­zione della cappella omonima, fatta realizzare dalla Badessa Marina. La cappella, su due livel­li, è un gioiello architettonico dell’arte gotica, caratterizzato da capitelli federiciani. Attraverso una scala con un corrimano a forma di serpente si accede al portale in stile romanico-pugliese in calcarinite rossa, pietra tipica del territorio.

In epoca moderna l’Abbazia fu retta direttamente dai monaci di Montevergine i quali restaurarono il complesso e fecero costruire la grande chiesa settecentesca su progetto di Domenico Antonio Vaccaro (1733-1740 circa), dove furono traslate le ossa del Santo fondatore. L’Abbazia fu sop­pressa nel 1807 durante il decennio francese e le ossa di San Guglielmo furono traslate definiti­vamente a Montevergine.Dopo una lunga permanenza di P. Lucio Marino dei monaci di Montevergine l’Abbazia è stata affidata alla Comunità dei Piccoli fratelli della Comunità Jesus Caritas di Charles de Foucauld.

Chiesa - Convento di S. Francesco a Folloni

La chiesa-convento di S.Francesco a Folloni La terribile peste del 1656 si abbatté su Nusco in modo devastante: dei circa 1500 abitanti ne sopravvissero non più di 450-500. Si conservava un libro dei morti di quei terribili mesi: i decessi furono annotati alla rinfusa da don Francesco De Mita , parroco di Santa Maria Vetere. Si annotava che la tal famiglia si era estinta o l’unico sopravvissuto. Ne morivamo venti al giorno: la Chiesa era aperta notte e giorno, per le continue sepolture. I preti andavano in giro per il paese, dando i sacramenti ai malati sulla porta di casa, o porgevano il viatico da mezzo alla strada o attraverso le finestre delle abitazioni sulla punta di un palo di legno.

Nei giorni di massima virulenza del contagio, fu ordinato ai malati di andare a coricarsi vestiti, per fare in modo che se la mattina erano ritrovati morti si evitava il contatto con le carni. Eppure in quei giorni la pietà di alcuni fu grande e si portarono a seppellire i morti più disgraziati ai piedi dei ruderi del Castello.
Due anni dopo il contagio, quando si fece la numerazione dei sopravvissuti, fra questi vi era il tenente Angelo Marsico, di anni 62, con la moglie Diana Petruzziello, di anni 45. Avevano case vigne, terreni, masseria e bestiame (dal valore di 300 ducati). Stando alle poche notizie che abbiamo, fu il tenente, ritiratosi a vita privata dopo una brillante carriera militare, ad edificare a sue spese tale Chiesa a devozione del Santo di Padova e dove si fece seppellire. Fu lui anche ad ordinare la pregevole statua del Santo opera del celebre scultore Giacomo Colombo. Da allora Sant’Antonio divenne il cimitero di Nusco.
Il cinquecentesco portale della Chiesa che una volta adornava la Cattedrale fu fatto trasportare verso la fine del 1800 presso la Chiesetta e restaurato. E’ un portale di notevole interesse artistico.

Santuario della Madonna delle Grazie (Lacedonia)

Durante le ricerche fatte nell’Archivio Vescovile di Lacedonia non ho trovato alcun documento per poter datare, almeno approssimativamente, l’inizio della venerazione della Madonna delle Grazie, che, secondo la tradizione, risale a diversi secoli fa. Plurisecolare, quindi, è anche il Santuario, che trovasi, splendente di luce mistica a pie’ di una collina, ad oltre 4 miglia da Lacedonia, verso Oriente. Le origini di questo Santuario, come ogni altro dedicato alla Madonna, hanno inizio da una leggenda, ancora oggi costante e nobile tradizione del popolo lacedoniese. La tradizione popolare, infatti, vuole che alcuni vaccari di Montella, pascolando le loro mandrie in contrada Forna, abbiano trovato, in un cespuglio, la statua della Madonna e l’abbiano portata nel loro paese. Un bel giorno, però, quei vaccari montellesi non riuscirono a trovare la statua, che, invece, fu ritrovata da alcuni contadini lacedoniesi sopra un olmo, poco distante dal punto in cui sorge il Santuario.
Il Palmese, storico lacedoniese, è, invece, del parere che la statua della Vergine, quella di S. Donato, un Crocifisso ed una piccola immagine della Madonna dell’olmo, fossero state fatte “da taluni vaccari di Montella in tempi remotissimi”[4]. Questa affermazione è priva di fondamento storico, e, quindi, accettabile come la prima; essa, però, è più attendibile per il fatto che i vaccari montellesi (ancora oggi abili intagliatori) abbiano, durante le soste con le loro mandrie in contrada Forna, potuto donare, alla spoglia Cappella, le statue che essi avevano intagliato con mano abile. La presenza dei vaccari montellesi in contrada Forna costituisce un fondamento storico accertato, perché i più anziani ricordano che, nel periodo della transumanza, tal luogo offriva ottimi pascoli e acque limpide e fresche del vicino torrente Osento[5]. Nel 1850 il Sacerdote D. Raffaele De Mauro fece rico­struire la volta; forse per l’eccessivo peso, appena ultimati i lavori, crollò tutto il fabbricato irreparabilmente. Il popolo Lacedoniese, sempre sollecito in queste occasioni, grazie alla sua profonda fede, cominciò la raccolta di ducati, che, insieme ai 100 offerti dal Re Ferdinando II, di passaggio per Lacedonia, in occasione della visita alla città di Melfi distrutta da un terribile terremoto[6], servirono a rifare, poco distante dalla precedente, la nuova Cappella. Nel 1857 il Cappellano Giuseppe Lavacca fece restaurare l’immagine della Madonna. Ancora oggi non è spenta nei Lacedoniesi la grande fede e devozione verso la Beata Vergine; nei nostri cuori, infatti, arde lo stesso amore, che un tempo infiammò gli animi dei nostri Padri. Ogni anno, in aprile, e precisamente il lunedì in Albis, la statua viene portata in processione al paese ed esposta, per circa un mese, nella Cattedrale.
La prima domenica di maggio la Madonna delle Grazie viene riportata nella sua chiesetta di campagna; i festeggiamenti durano l’intera giornata “in una magnifica cornice di verde, tra gli effluvi della primavera in fiore, unitamente all’ azzurro immacolato del cielo, in una commovente sagra di popolo che riecheggia nel rito sincero il palpito della sua ardente devozione”[7]. La processione, muovendo dalla Cattedrale verso le sette del mattino, giunge al Santuario verso le 10. Spesso si nota che alcuni devoti alla Madonna seguono scalzi la processione per tutto il percorso. Lo spiazzale antistante la chiesetta si gremisce di pellegrini dei paesi viciniori (Monteverde, Aquilonia, Rocchetta S.Antonio) giunti a piedi o con asini o con automobili; altri hanno già preso posto all’interno della Cappella per assistere alla S. Messa solenne. Prima che la statua sia portata in chiesa vengono sparati i tradizionali fuochi artificiali. Non mancano i venditori di noccioline, torroni, bibite fresche, gelati e perfino di frutta.
Al termine delle cerimonie religiose le comitive siedono all’ombra degli alberi del vicino bosco e consumano il pranzo portato da casa o preparato sul posto. Il luogo dove sorge il Santuario della Madonna delle Grazie è veramente incantevole; vi si arriva percorrendo una strada interpoderale che ha inizio nei pressi del Cimitero, corre agevolmente lungo la sponda sinistra del fiume Osento dalle fresche e limpide acque fino alla Cappella e prosegue per Aquilonia, dopo essere passata sul muro di sbarramento della diga[8], in agro di Monteverde, da poco costruita. Nei pressi del Santuario si è formato un bel laghetto, dove gli appassionati di pesca possono soddisfare il loro hobby. Tra gli alberi del vicino bosco i pellegrini Possono tranquillamente consumare la colazione; il sottobosco, poi, è ricco di asparagi molto saporiti. Appuntamento, quindi, ogni prima domenica di maggio di ogni anno, alla Forna, dove, in occasione dei solenni festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie, si può trascorrere una giornata a diretto contatto con la natura, in luoghi non ancora contaminati dalla civiltà industriale.

Provincia di B.A.T.

Abbazie, Santuari ed Eremi della Valle del Fiume Ofanto

Santuario Madonna dello Sterpeto (Barletta)

Dove ora sorge il maestoso e moderno Santuario diocesano di Maria SS. dello Sterpeto, a circa tre chilometri sulla via che da Barletta porta a Trani, esisteva, sin dal Medioevo, un’antica chiesetta, che, per tradizione, si ritiene facesse parte di un modesto cenobio di monaci Basiliani. Il più antico documento attestante la presenza in zona “Sterpeto” di una chiesa dedicata alla Madre di Dio è del 1215. In esso il Papa Innocenzo III confermava all’Arcivescovo di Trani la giurisdizione sul villaggio dello Sterpeto. Un secondo documento risale al 1249: si tratta di una lapide in marmo, attualmente affissa sulla parete sinistra dell’abside del vecchio Santuario.

È la testimonianza della presenza allo Sterpeto di una comunità di Benedettini di Monte Sacro sul Gargano. A questi subentrarono i Cistercensi verso il 1258. Ma in seguito alla loro partenza nel 1374 la chiesa andò lentamente in rovina. Sopravvisse solo una cappella rurale: lo Sterpeto si ridusse ad un’azienda agricola, mentre il borgo veniva raso al suolo dal condottiero Renzo da Ceri, a servizio del Re di Francia, nel 1528. Nella seconda metà del ‘500 la situazione cominciò a migliorare con la venuta dei Frati Minori Francescani e, dopo questi, dei Benedettini di Montecassino. Dal 1670 la chiesa di S. Maria dello Sterpeto venne affidata al clero secolare dalla Congregazione dei SS. Apostoli di Roma.

Una volta proclamata la Madonna dello Sterpeto Patrona e speciale Protettrice di Barletta nel 1732, come riconoscimento di aver risparmiata la città dal terribile terremoto di quell’anno, la vecchia chiesa, ridotta ormai a una fatiscente cappella, venne demolita per far posto ad un nuovo edificio, che corrisponde al vecchio Santuario, attualmente in via di accurato restauro. Nella seconda metà del ‘700, per interessamento di una Deputazione di cittadini barlettani, furono realizzati parecchi lavori, che conferirono al sacro edificio l’aspetto di un vero santuario: due altari laterali dedicati a S. Ruggero e alla S. Croce, compatroni della città; la spalliera in marmo policromo, nella quale dal 1777 troneggia la sacra Icona della Vergine; la cupola elevata in asse con l’altare maggiore; l’arco di trionfo come ingresso al violone che, dalla statale 16, conduce al Santuario: sotto la riproduzione in pittura della immagine della Madonna si legge una vibrante dedica che ha tutto il sapore di un affidamento. Nel fervore dei festeggiamenti per il secondo centenario (1732-1932) della proclamazione della Madonna dello Sterpeto a Protettrice della città, fu progettato e costruito un monastero accanto al Santuario, per accogliere il ritorno dei Padri Cistercensi.

I Padri vennero, ma la loro presenza durò appena quindici anni. Nel 1951 i Padri Giuseppini di Asti accettarono la direzione del Santuario, avviando nuove realizzazioni strutturali e iniziative pastorali. Intanto si avvertiva la necessità di un tempio che contenesse il numero sempre crescente dei pellegrini. Nel 1968 si dava inizio alla costruzione del “nuovo Santuario”, che veniva consacrato solennemente il 5 settembre 1977 dall’arcivescovo della Diocesi, Mons. Giuseppe Carata. L’edificio, pur con la sua capacità di oltre tremila fedeli, non perde una particolare carica di misticismo: l’attenzione è concentrata verso la stele-trono in cui è esposta l’Immagine della Vergine. Già eretto a parrocchia nel marzo 1969, nel corso degli anni successivi si è arricchito di artistici elementi decorativi. All’esterno: una torre campanaria, alta e svettante, dotata di ben nove campane e di una croce che di notte si illumina, come stella polare indicante la rotta della fede verso cui tendere; un monumento a S. Giuseppe Marello, Fondatore dei Giuseppini e a S. Pio da Pietrelcina; campi sportivi per l’oratorio parrocchiale e sistemazione di un giardino per una sosta riposante dei pellegrini. All’interno: due mosaici sulla parete di fondo, raffiguranti misteri della vita di Maria, e uno nella cappella del Santissimo; stupende vetrate istoriate che rendono l’interno del tempio come un catechismo aperto. Nei locali sotterranei è stato allestito un museo della devozione popolare verso la Vergine, unito alla sala degli ex voto. 

Oggi il Santuario dello Sterpeto, con le sue numerose iniziative pastorali, grazie al generoso lavoro dei Padri Giuseppini, è senza dubbio un grande centro di spiritualità e di preghiera, meta di migliaia di fedeli che vi accorrono per la celebrazione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, per giornate di ritiro e incontri, per ascoltare una parola amica nelle difficoltà della vita, soprattutto per deporre nel cuore della “Mamma bella” i segreti e le lacrime dell’anima e chiedere fiduciosamente grazie e protezione.

Santuario Madonna del Sabato con annessa Grotta di San Michele (Minervino Murge)

Situata ai piedi di Minervino, in una vallata che si trova al termine di quel canale naturale, un tempo fiumiciattolo, denominato “Matitani”, la grotta di San Michele è una cavita carsica la cui formazione risale al Quaternario (2 milioni d’anni fa), periodo in cui quest’area, sino ad allora sommersa, comincia ad innalzarsi sul livello del mare.

Le prime testimonianze scritte, riferentesi a questa grotta, sono reperibili in una pergamena conservata nell’Abbazia di Montecassino, e datata 12 febbraio dell’anno 1000. La grotta doveva, però, essere conosciuta e frequentata già in passato e presumibilmente in età paleocristiana. Antico luogo di culto micaelico, la Grotta ha un interesse storico, artistico e speleologico.

La tradizione ha due date per celebrare S. Michele: il 29 settembre festa della dedica di una basilica romana al culto del Santo e l’8 maggio festa dell’apparizione dell’Arcangelo sul Gargano.

Abbazie, Santuari ed Eremi della Valle del Fiume Ofanto

Provincia di Foggia

Santuario della Madonna di Ripalta (Cerignola)

Il Santuario della Madonna di Ripalta sorge su uno strapiombo, sulla riva sinistra dell’Ofanto, a circa nove chilometri da Cerignola. In origine, in questo luogo si praticavano riti pagani, come testimonia una stele, probabilmente facente parte di un antico tempio. Essa presenta un’iscrizione latina relativa alla costruzione di un’ara dedicata alla dea Bona, divinità della pastorizia e dei boschi.

Le prime tracce relative al culto dell’icona bizantina di Maria risalirebbero all’XIII secolo. L’icona fu portata in località Ripalta dai monaci Basiliani, fuggiti dalla persecuzione contro il culto delle immagini sacre attuata da Leone III l’Isaurico. La costruzione del convento dovrebbe essere quindi opera dei monaci, i quali lo realizzarono sui ruderi dell’antico tempio per esporvi l’icona. L’8 settembre 1992 la chiesa è stata eretta a Santuario diocesano.

Esso ospita il quadro della Madonna di Ripalta per i mesi che vanno dal secondo lunedì di ottobre al sabato successivo alla Pasqua. In quei giorni, i fedeli si muovono in pellegrinaggio per accompagnare l’icona da Cerignola al santuario e viceversa. Durante la processione, il corteo effettua due soste in prossimità di altrettante cappelle rurali: la Salve Regina (1872) e le Pozzelle (1833).

Chiesa del Padreterno

La chiesa di Santa Maria delle Grazie di Cerignola (meglio conosciuta come: chiesetta del padreterno) è una chiesa campestre costruita nel XIV secolo ubicata nell’agro cittadino, in località Contrada San Martino. La chiesa fu fatta costruire da Lorenzo e Goffredo Lupis, fuggiti dalla città di Giovinazzo nel 1382[1]. È nota anche con il nome di “Chiesa del Padre Eterno”, a causa delle numerose immagini che ritraggono questo soggetto; è inoltre nota con l’appellativo di “Incoronatella”, dalla cappella laterale fatta costruire nel 1785 dalla famiglia Battaglino e consacrata per l’appunto alla Madonna dell’Incoronata, venerata nel santuario presente nel borgo omonimo nei pressi di Foggia.
Esternamente la chiesa si presenta con una semplice facciata, decorata solo da due finestre nella parte superiore e da un portale con arco gotico. Sulla lunetta è presente un dipinto che raffigura il Padre Eterno. L’ingresso si trova al di sotto del piano stradale, e vi si accede tramite tre scalini. La facciata culmina con una campanile molto semplice con una campana risalente al 1904. Nella parte terminale vi è una piccola abside semicircolare senza cortina. Annessa alla chiesa, sul lato sinistro, vi è una seconda costruzione più recente, un tempo adibita a sacrestia. A destra dell’ingresso si trova un passaggio con arco policentrico, che permette di accedere alla cappella dell’Incoronata; sulla sinistra due archi a tutto sesto sovrastano l’ingresso alla sacrestia e l’altare settecentesco, intitolato alla Vergine delle Grazie. Una nicchia conserva una quattrocentesca statua in legno della Madonna. Il pavimento originario, in cotto di Canosa, è stato sostituito dall’attuale durante i lavori di restauro del 1969.
Nel presbiterio la volta a crociera è contrassegnata da due costoloni, che terminano a circa due metri dal pavimento con due immagini allegoriche rappresentanti due mani e due tartarughe. Nel punto in cui i costoloni si incrociano, è posta una sfera in muratura che presenta l’iscrizione: “Ave Maria”.
Nella cappella dell’Incoronata si trova un altare costruito in pietra leccese decorato con fregi e che reca sui cantonali lo stemma della famiglia Battaglino, che sovvenzionò la costruzione della cappella. In una nicchia è conservato un dipinto su tela con l’effigie della Vergine Incoronata che presenta, in basso a sinistra, l’iscrizione: “Francisci Battaglini quond(am)/Hjacinti 1784”. Sull’altare di destra vi è un altro stemma della famiglia Battaglino, in pietra leccese, circondato da una cornice a volute e con una dedica in basso. Sono presenti numerose tracce di affreschi, in particolare quelli quattrocenteschi su l’arco trionfale, con Cristo risorto e le quattro figure sulla parete destra del presbiterio (Santa Lucia, san Vito e San Leonardo, con una quarta figura non identificata) e le tre sulla parete sinistra (Vergine delle Grazie al centro). Nell’abside sono raffigurati una Madonna delle Grazie con gli Apostoli e Padre Eterno con la Madonna e san Giovanni Battista inginocchiati ai lati, in basso.
Nella chiesa si conservano inoltre tre graffiti: uno del 1503 ricorda la battaglia di Cerignola tra francesi e spagnoli (qui infatti fu trasportato il corpo senza vita di Louis d’Armagnac, duca di Nemours, comandante dell’esercito francese sconfitto. Un secondo del 1591 ricorda la rimozione e sostituzione delle vecchie porte e l’ultimo del 1691 è relativo ad un terremoto e ad un’epidemia di peste.